articolo di Michael Kahn
Capitolo I
Fritjot Capra (1975) ci ha ricordato che, mentre la sperimentazione è appannaggio dei fisici moderni, ai quali vorrei aggiungere Wilhelm Reich, alcune delle nostre scoperte scientifiche contemporanee furono anticipate migliaia di anni fa dai saggi orientali. La specifica tradizione di meditazione che in questo articolo viene paragonata a Reich è quella che nel nostro paese è stata associata al maestro birmano Sajagi U. Bakhin (1961). U. Bakhin insegna che la sua meditazione ci è pervenuta direttamente dal Buddha. In ogni caso esiste da lungo tempo, così come la filosofia Theravada a cui essa si ispira. Così come i cristiani attribuiscono alla caduta dell’uomo da uno stato di perfezione la perdita dell’Eden, i buddisti Theravada attribuiscono all’avidità della vita l’aver introdotto la sofferenza in un universo puro. Ricordiamo le 4 Nobili Verità rivelate al Buddha nel profondo della meditazione. La vita è sofferenza. La sofferenza procede dal desiderio. La sofferenza può avere termine.. seguendo l’ottuplice sentiero. La seconda Nobile Verità si riferisce alla legge del Karma (sankhara) che fa procedere la vita. Ogni qual volta faccio esperienza del desiderio per avvicinarmi a ciò che è piacevole o per evitare ciò che è spiacevole aggiungo sankhara alla mia scorta. Quando dunque cedo al desiderio sia per assecondarlo che per fuggirlo, il sankhara diventa più forte, più durevole. L’accumulo dei miei sankhara fa sì che la vita presente sia miserabile e mi tenga legato alla ruota della reincarnazione.
La parola Vipassana significa insight o saggezza e si riferisce a vedere le cose come esse sono. Come sono le cose è descritto dalle 4 Nobili Verità. Più specificamente il modo di essere delle cose è descritto dai 3 concetti di anicca, dukkha, e anatta. Anicca si riferisce all’impermanenza del tutto, al cambiamento incessante di tutta la materia ed energia. Come la moderna fisica delle particelle, anicca insegna che gli oggetti solo apparentemente sono solidi e durevoli, e che in realtà sono composti di kalapa (cioè particelle subatomiche che appaiono e spariscono in una infinitesima parte del secondo). Perciò niente è solido, niente è durevole. L’amato che adoro e desidero decade e svanisce davanti ai miei occhi, e io anche. Il senso di piacere che ottengo dopo una disperata ricerca vacilla e scompare. Non tenere conto di anicca conduce direttamente a dukkha. Dukkha significa sofferenza.
II tentativo di trattenere ciò che vacilla e svanisce porta all’inevitabile sofferenza senza fine. D’altra parte la comprensione di anicca porta alla consapevolezza di anatta. Anatta significa niente anima, niente essenza, niente sé, niente Io, con le sue implicazioni di continuità. È nutile osservare che ne consegue inoltre che non può esserci Dio, né un creatore, né un punto fisso nella danza turbinosa delle particelle.
La meditazione Vipassana, perciò, è una pratica che si prefigge di mostrare ai discepoli come sono veramente le cose e di liberarli dall’attaccamento per ciò che non esiste. Secondo i saggi della tradizione theravada, la ricerca del piacere costituisce il problema. Come dice la seconda Nobile Verità, l’attaccamento al piacere è la causa di tutte le sofferenze. Se consideriamo il mondo decisamente transitorio, ci viene detto, non potremo mancare di vedere la verità: tutto scorre; l’attaccamento al piacere porterà a frustrazione e miseria senza fine. Il nostro Karma, il nostro accumulo di sankhara ci ha in qualche modo persuaso di questa trasparente bugia: il piacere può essere trattenuto e mantenuto. Come è potuto succedere? In che modo il Karma ci ha fatto questo?
Capitolo II
Wilhelm W. Reich è stato un seguace di Freud tra i più energici e creativi. Si interessò particolar-mente della teoria di Freud sul sesso e in un secondo tempo delle problematiche inerenti la tecnica terapeutica. La maggior parte degli psicanalisti considera a tutt’oggi insuperato il suo lavoro sulla resistenza in analisi (1945). Reich e Freud si separarono e Reich seguì una strada completamente autonoma. Reich non aveva un’alta opinione del maestri religiosi e non si fece impressionare da ciò che affermavano alcuni Buddisti, cioè che il Buddismo non è una religione. Reich guarda al Buddha e agli insegnamenti Theravada nello stesso modo in cui guarda quelli cristiani, ebrei, e maomettani, e cioè come a strumenti usati dalla cultura autoritaria e, patriarcale per confondere gli esseri umani perché possano essere sfruttati per i fini di potere e di profitto delle classi dominanti (1946). Egli credeva che questa confusione avesse luogo sottraendo all’uomo il più fondamentale tra i diritti di nascita: l’esperienza del piacere. Se avessimo l’esperienza del piacere completamente disponibile, insegnava Reich, non potremmo più venire sfruttati. Non potremmo essere ridotti in schiavitù con l’inganno a mezzo di false gratificazioni e, soprattutto, non potremmo essere ridotti a danneggiare i nostri fratelli.
I maestri religiosi, secondo Reich, ci hanno sottratto l’esperienza del piacere insegnandoci ingegnosamente le tre grosse bugie del puritanesimo: il piacere è male, il piacere è deviante, il piacere porta alla sofferenza. Questo cinico insegnamento puritano, afferma Reich, ci ha in qualche modo convinti di questa bugia magistrale: il piacere non dà piacere. Come è potuto accadere?
Capitolo III
Per capire il punto di vista di Reich su come ciò sia potuto accadere, immaginiamoci un ragazzino che lotta con un conflitto riguardante la masturbazione (conflitti consci di questa natura sembrano più rari nelle bambine). Il padre del ragazzino, indirettamente e con evidente imbarazzo, gli ha detto che dovrebbe esercitare volontà e autocontrollo. Vi sono inoltre alcune sconcertanti allusioni alla masturbazione nel manuale del Boy Scout, a scuola, in chiesa. I messaggi possono essere sottili, ma sono dovunque e chiari: la masturbazione è qualcosa di proibito. Il pericolo non è tale da superare il potente impulso della libido, ma sufficiente a produrre un serio conflitto. II ragazzino diventa un colpevole vizioso. Viene tentato, cade, e quindi conoscerà le fitte di rimorso che tutti i viziosi sentono dopo essere caduti in tentazione. Promette a se stesso che smetterà. Si asterrà per un mese, una settimana, forse un giorno. Poi gli impulsi sessuali si agitano nel suo corpo ed egli li riconosce con un tuffo al cuore; ancora una volta sta per essere tentato, e sicuramente ancora soccomberà.
Poi un bel giorno accade qualcosa: le sensazioni sessuali che montano irresistibili improvvisamente diminuiscono e si attenuano. La tentazione si placa. Per il momento, per lo meno, egli è liberato. Sebbene egli probabilmente non sappia che cosa è successo, possiamo indovinarlo. Egli improvvisamente ha trovato modo di tenere alcuni muscoli del corpo, di manipolare il respiro, di inibire alcune sequenze di movimento, e tutto questo ha come effetto l’arresto della salita della sensazione sessuale. I principi del condizionamento operante rendono inevitabili i passi successivi. Rapidamente ed efficacemente (e inconsciamente) egli impara cosa fare di fronte ad incipienti sensazioni sessuali. Fa qualcosa con i suoi muscoli, il suo respiro, il movimento e ciò dà l’effetto desiderato, l’inibizione di tali sensazioni; presto tutto ciò diventa automatico. La più flebile eccitazione fa scattare le tensioni del corpo. Ben presto anche le situazioni in cui l’eccitazione sarebbe autorizzata a comparire stimolano la risposta corporea. In realtà egli chiama queste tensioni a far sempre parte del suo corpo in modo da poter essere sempre pronto. Nel vocabolario del teorici dell’apprendimento egli ha “sovraimparato la sequenza”. Il che vuol dire che ha avuto molte più prove di quelle che sono necessarie per imparare. Le risposte sovraimparate sono molte più difficile da disimparare.
Perciò quando egli diventa grande e si sposa o frequenta una scuola permissiva si trova in una situazione in cui la società non pensa più che l’eccitazione normale sia cattiva, una situazione in cui ci si aspetta da lui che faccia l’esperienza della sessualità. Tuttavia, nel senso vero del termine, è troppo tardi. Ha imparato, anzi, sovraimparato la sequenza. È importante ricordare qui che la “risposta imparata” è corporea, e si è fatta così abituale da diventare parte integrante del suo modo di essere. Così quando abbraccia la sua innamorata, il suo corpo non risponderà in modo naturale, ma con le tensioni che sono state erette per proteggerlo dalle sensazioni che una cultura puritana gli ha insegnato essere pericolose, svianti e che conducono alla sofferenza. Quasi la stessa sequenza deve affliggere la giovane donna che è stata allenata a mantenersi pura fino al matrimonio. Nella sua notte di nozze ci si aspetta da lei che improvvisamente e magicamente lasci cadere anni di inibizioni inculcate con cura. Anche se vuole lasciarle cadere e cerca di lasciarsi andare ormai fanno parte del suo corpo.
Secondo il linguaggio di Reich, ella ha ricoperto il suo corpo con una corazza caratteriale. Fatta di una serie di tensioni e di rigidità del corpo, che hanno il compito di difenderla sia dalle sensazioni pericolose che dagli stimoli eccitatori provenienti dall’esterno, soprattutto dalla propria immediata realtà interpersonale. Ciò condizionerà il suo modo di stare in piedi, di parlare, di camminare. Determinerà la sua postura, i suoi modi di essere, le espressioni del volto. La corazza è diventata il suo carattere e sebbene la protegga dalle sensazioni e dagli stimoli pericolosi, il costo di tale protezione è schiacciante. Esso è nientemeno l’infelicità che un processo di civilizzazione repressiva infligge ai propri figli. È il meccanismo attraverso il quale l’incredibile bugia “il piacere non è piacevole” viene inculcata.
Data questa visione del problema, possiamo immaginare facilmente la terapia che Reich mise a punto. Anche se la sua storia è nota a tutti, può essere utile ricordarla brevemente. Reich notò che la resistenza del paziente al processo psicoanalitico presentava inevitabilmente una componente muscolare. Alcune chiare rigidità muscolari o disturbi della respirazione Si accompagnavano alla cessazione delle associazioni verbali a alla riluttanza ad affrontare argomenti “pericolosi”. Egli cercò di aggirare la resistenza aggirando il blocco fisico, insegnando al paziente a rilassarsi o a respirare o addirittura intervenendo manualmente sulla rigidità. I risultati furono sorprendenti. Quando la corazza diveniva sufficientemente “morbida”, i pazienti potevano fare l’esperienza di un flusso di energia intensamente piacevole attraverso il corpo. Sembrava un miracolo, o piuttosto che la cura della nevrosi assomigliasse alla creazione della vita. Al posto di un corpo rigido e insensibile, appariva la vibrazione maestosa e pulsante della vita, e i pazienti sperimentavano quello che Reich definiva lo scorrere dell’ “energia orgonica” attraverso il corpo.
La visione di Reich era questa: la corazza caratteriale è tensione muscolare. Questa tensione inibisce il movimento, tanto grossolano quanto sottile. Questa inibizione del movimento a sua volta inibisce le sensazioni. Dal momento che non vi può essere la più piccola emozione senza movimento o sensazione, l’armatura è veramente efficace nel proteggere dagli stimoli pericolosi. La morte sensoriale è quindi condizione necessaria e sufficiente per la nevrosi. La terapia reichiana ha lo scopo di dare ai pazienti, probabilmente per la prima volta nella loro vita, accesso a tutte le sensazioni corporee, anche le più sottili. Non vi è dubbio che Reich capì che andava molto più in là della pura e semplice cura della patologia. Nonostante egli odiasse tutte le implicazioni della religione e della spiritualità e avrebbe detestato una parola come “illuminazione”, disse una volta (1942): “Chiunque sia in contatto con il proprio corpo non può chiedersi: qual’è il significato della vita?” Questa domanda non lo sfiorerà.
Capitolo IV
Ho chiuso il capitolo I chiedendo come il karma abbia potuto spacciarci la notevole bugia che il piacere può essere afferrato e trattenuto. La tradizione che U. Bakhin insegna, fornisce da migliaia di
anni una risposta inaspettata a questa domanda. I sankhara sono accumulati nel corpo. Ogni Sankhara è presente in qualche parte del corpo come tensione, come blocco, qualcosa di solido. Queste tensioni e blocchi ci impediscono di sentire la vera natura dell’universo, cioè la verità che nulla perdura, che tutte le cose sorgono e in un istante muoiono. I sankhara fanno ciò tenendoci nascosta la vera natura di tutte le sensazioni corporee; tenendoci nascosta la pulsazione e la vibrazione del corpo. Essi sono, in breve, la corazza caratteriale. Una tradizione religiosa che sembra ad una prima oc-chiata essere all’opposto di tutto quanto Reich disse, arrivò all’intuizione della corazza caratteriale 2500 anni prima di lui.
Nel capitolo III abbiamo considerato la terapia sviluppata da Reich per la corazza caratteriale. Diamo ora uno sguardo alla meditazione che U. Bakhin insegnò per i sankhara. Come per la maggior parte delle pratiche di meditazione, e come nella terapia reichiana, vi sono tecniche e stadi. Ma la pratica essenziale è chiara e semplice: consiste nel diventare coscienti di tutte le sensazioni del corpo, anche le più sottili, osservandole con serenità, non aggrappandosi ad esse né rifuggendole, non amandole né odiandole. U. Bakhin insegna che quando si studia il proprio corpo in meditazione, ci si accorge che la sua solidità è solo apparente (cfr. II Tao della fisica di F. Capra), e che in realtà esso è formato da milioni di minuscole increspature di energia, un flusso di vibrazioni che si percepiscono quando le kalapa sorgono e si dissolvono alla velocità della luce. Venticinque secoli prima di Reich, i Theravada hanno scoperto qualcosa di simile all’energia orgonica.
Ne consegue che: l’esperienza di anicca (impermanenza cosmica) è possibile dove essa e maggiormente disponibile, nel proprio corpo, e se ogni cosa esiste solo per un’infinitesima frazione di tempo, si impara l’equanimità (la serenità): non ha senso l’attaccamento o il rifuggire. Non vi è nulla a cui attaccarsi, nulla da cui fuggire. E poiché la seconda Nobile Verità è che dukka (la sofferenza) procede dall’attaccamento, se l’attaccamento se ne va, anche la sofferenza se ne và. E finalmente dato che non trovo niente di solido da chiamare Io, sono in contatto con Anatta e sono libero. Vale la pena di notare un altro aspetto di questa meditazione (ricordate che i sankhara sono accumulati sotto forma di tensioni, blocchi e durezze del corpo): se, a fronte di un nuovo stimolo, mi attacco o rifuggo, si forma un nuovo sankhara. Ma se in tale situazione non mi attacco, né rifuggo, ma cerco di mantenere l’equanimità, succede dell’altro. È chiaro, ovviamente, che non do origine a un nuovo sankhara. Succede invece che un vecchio sankhara emerge dalle profondità sepolte verso la superfice, dove lo percepisco come tensione o blocco, o forse come dolore. Se lo odio o cerco di liberarmene esso diventa ancora più radicato, ma se riesco a osservarne l’apparire con equanimità, se ne andrà e per sempre. Il mio fardello karmico sarà diminuito. Ciò non è dissimile dal modello di riduzione dei grassi: se resisto e non mangio, il mio corpo deve vivere di qualcosa e quindi consumerò i grassi già immagazzinati.
Quando i sankhara si dissolvono, ne emergono a mano a mano altri sempre più profondi che si offrono a loro volta alla dissoluzione. A un certo punto (presumibilmente dopo innumerevoli vite) tutti i sankhara saranno eliminati e sono libero dal karma. Nel sistema reichiano, similmente, vi sono diversi strati di corazza caratteriale. Quando uno si dissolve, ne compare un altro col quale bisogna avere a che fare.
Capitolo V
Le somiglianze tra queste due visioni del mondo sono notevoli:
1) le tensioni del corpo e le rigidità costituiscono il carattere o atta (Io). Il carattere e atta costituiscono l’illusione dell’individualità. Essi sono illusori perché, spogliati dalla rigidità, riconosciamo noi stessi come facenti parte della vibrazione e pulsazione galattica atomica universale.
2) In opposizione al rifiuto per paura delle sensazioni dolorose del corpo e al futile attaccamento a quelle piacevoli, calma e osservazione impavida delle sensazioni (U. Bakhin) o egualmente impavida esplorazione energetica delle stesse (Reich) permettono ai blocchi distruttivi, strato dopo strato, di emergere in superficie e di svanire.
3) Questo permette di essere veramente in contatto con il proprio corpo.
4) Essere realmente in contatto con il proprio corpo è esattamente lo stesso che essere in contatto con l’universo (la pulsazione di tutta la vita, dall’ameba alle galassie e la comparsa e la scomparsa dei kalapa [orgoni] secondo la legge di anicca).
5) Questa consapevolezza dell’emergere e dello svanire, della pulsazione, disperde l’illusione di solidità e l’insensibilità del corpo, il che significa che tutte le illusioni sono dissipate.
6) Ciò significa che ora si è in contatto con la verità e la saggezza, cioè si è illuminati.
Capitolo VI
Ho iniziato questa esposizione mettendo in luce le differenze tra Reich e il buddismo Theravada. Ho proseguito mostrando la sorprendente somiglianza di alcuni dei loro punti di vista. Ma che dire allora delle differenze notate all’inizio? Sono del parere che la più grande, ed è veramente enorme, è l’atteggiamento nei confronti della vita. Reich è dichiaratamente a favore della vita. La vita è il più grande dono datoci dall’universo, e bisogna viverla pienamente, appassionatamente e con gratitudine. I Theravada, d’altro canto, non si aspettano niente di buono dalla vita. La vita è una corruzione dolorosa della purezza dell’universo dalla quale è meglio uscire il più velocemente e il più aggraziatamente possibile.
I Theravada perciò ci guidano verso uno stato di quiete beata, uno stato in cui la saggezza è così profonda che non vi è più tensione, solo una placida monotonia. Reich da parte sua notò che tutta la vita pulsa allo stesso ritmo universale: contrazione-tensione-rilassamento-espansione. Adottare un solo stato dell’essere, sia esso la tensione della corazza caratteriale o il rilassamento della beatitudine, significa negare il ritmo universale. E ciò comporta implicazioni considerevoli per quanto riguarda il movimento. L’obiettivo dei Theravada è la stasi: sedersi quietamente, non fare nulla, osservare, le sensazioni.
La terapia reichiana porta invece irrevocabilmente al movimento; dal più sottile brivido della pelle, attraverso il movimento della pelvi, fino a un movimento energetico e sociale nel mondo. Perciò, in opposizione all’immobile, silente ricerca buddista della fine di tutte le sofferenze, Reich raccomanda una vita pienamente impegnata con le gioie inframmezzate da inevitabili delusioni e perdite che compaiono e svaniscono nel ritmo universale. Non si possono negare queste differenze, ci sono e sono importanti, ma forse il problema più importante posto da queste due visioni del mondo è quello del piacere. Vi è qualcosa di intrinsecamente, innegabilmente vero nell’insegnamento reichiano che il piacere è il dono supremo dell’universo. Vi è qualcosa di altrettanto inevitabilmente vero nell’insegnamento Theravada che chiunque abbia gli occhi aperti può vedere: che il piacere è così fugace da non essere nemmeno un piacere. Uno scrittore sensibile si inchinerebbe riverentemente davanti a questo koan e lascerebbe qui (ogni ulteriore approfondimento sarebbe arrogante). Io procedo quindi con giustificato imbarazzo. I Theravada avvisano che tanto l’attaccamento al desiderabile quanto il rifuggire il non desiderabile ci porterà sempre più profondamente nella schiavitù della vita. È possibile che anche Reich stia dicendo qualcosa di simile? Reich ne sapeva qualcosa circa il pericolo dell’attaccamento al piacere.
Quando egli divenne popolare nell’ambito di alcune subculture americane, il suo nome venne invocato a supporto dei più estremi modelli di promiscuità. Reich odiò tutto ciò e lo chiamò la “perversione parolacciaia” del suo lavoro. Reich conosceva anche le conseguenze del rifuggire il non desiderato; uno dei suoi grandi originali “insight” fu che non sono il dolore e la paura a rendere la vita più gravosa, ma piuttosto la lotta interiore contro il dolore e la paura. Paura e dolore fanno parte della danza della vita e se permettiamo loro di scorrere attraverso il corpo come tutte le altre esperienze, il danno che procurano è minimo. Quando, al contrario, costruiamo le strutture della corazza caratteriale per tagliare fuori le sensazioni sgradevoli e gli stimoli che ci fanno paura, ci mutiliamo. E quindi anche qui le due visioni del mondo sembrano compatibili. Come i Theravada ci insegnano di sedere quietamente, senza attaccamento o rifiuto, ma permettendoci di essere coscienti di tutto con equanimità, Reich insegnava ai pazienti ad accettare che tutte le sensazioni possono scorrere attraverso di loro e tutti gli stimoli possono toccarli.
Veniva loro insegnato non di attaccarsi o inseguire il piacere, ma piuttosto di permettere all’amore di portare il piacere quando ciò è naturale. Tutta la vita, disse Reich, pulsa allo stesso ritmo universale: contrazione-tensione-abbandono-espansione. II piacere viene e va secondo questo ritmo. Non può venire trattenuto poiché si tratta del ritmo del cosmo. Sale e scende come le maree e come queste non può essere controllato. La nostra opportunità consiste nel far parte di questa pulsazione universale. Siamo di fronte al paradosso che sia la vita che il nirvana sostengono la stessa realtà, offrendoci indicazioni notevolmente simili. Quando due fonti così disparate fanno emergere una prospettiva comune, può valere la pena di prenderla in seria considerazione.
tratto da Cyber n.30 Luglio ’91
Traduzione dall’inglese di Daniela Folli.
A cura di Luciano Marchino, Massimo Marietti e Monique Mizrahil
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