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Immagine del redattoreRoberto Maria Sassone

Il Coraggio della Consapevolezza

di Corrado Pensa



Questo articolo è tratto dalla rivista SATI, 1998, n. 3, edita dell’A.ME.CO Associazione Italiana per la Meditazione di Consapevolezza.


La psicologia insegna che la madre saggia è colei che cura, sostiene e protegge il suo bambino da una parte, mentre è pronta, d’altro canto, a dargli fiducia. In questo modo, sentendosi rassicurato, il bambino impara a stare volentieri anche da solo e sviluppa interesse per esplorare ciò che non conosce.

A me sembra utile chiedersi quale può essere nel cammino spirituale un equivalente della madre saggia, ossia un qualcosa che, sostenendoci intelligentemente, ci permette di avanzare con fiducia e coraggio.

Io credo che tale equivalente è ciò che potremmo chiamare la base della pratica ed è rappresentato da un insieme di cose, o meglio di condizioni, per usare il linguaggio dharmico, condizioni che, appunto, sostengono e sospingono. Vediamo di passarle brevemente in rassegna.

a) In primo luogo ricordiamo tutto ciò che è sangha e dunque gruppi di pratica, insegnanti, monasteri e monaci, centri urbani di Dharma, centri di ritiro. L’elemento chiave è arrivare a sentire tutte o alcune di queste ‘condizioni’ come familiari e affidabili. Il meditante che per un attimo si commuove rimettendo piede in un luogo di ritiro, che in passato fu propizio a un’apertura del cuore, percepisce una sorta di calore e di affidabilità. Consideriamo inoltre la contentezza che possiamo avvertire allorché ci affacciamo in un posto dove siamo soliti praticare in gruppo: quella contentezza è una forma implicita e per niente superficiale di presa di rifugio nel sangha. E sempre nel sangha io includerei la tradizione grazie alla quale ci sono pervenuti attraverso i secoli gli insegnamenti che seguiamo. La gratitudine verso la tradizione è un’altra forma di presa di rifugio nel sangha.

b) Naturalmente farà parte della base della pratica una buona comprensione delle dottrine essenziali del Dharma, a cominciare dall’insegnamento circa le quattro verità fondamentali. Qui non si parla di una realizzazione profonda di tali dottrine, né, d’altra parte, di una conoscenza erudita. Intendiamo piuttosto lo sviluppo di un certo interesse e di un certo gusto a riflettervi, aiutandosi con l’ascolto e lo studio del Dharma. Anche qui la chiave importante è quel certo senso di familiarità e di fiducia che può nascere da questo tipo di riflessione.

c) Una sincera attrazione per la sfera dell’etica e della sua coltivazione, con tutte le difficoltà che ciò comporta, dato che ‘il mondo’, oggi come ieri, è sempre andato in direzione opposta a una vita virtuosa. E ciò in modi grossolani o molto sottili. Ora un’etica che tende sempre più a farsi sensibilità, a farsi impegno via via meno fragile e più tranquillo alimenta anch’essa un agio e una fiducia ‘materne’.

d) La pratica formale di calma concentrata nel suo aspetto più diffuso in questa tradizione, ovvero l’attenzione al respiro o ad altra sensazione fisica rilevante, alimenta col tempo una forza, un’energia che è importante per diverse ragioni. Tra esse spiccano, ancora una volta, la serenità e la fiducia che vengono al seguito di una mente più unificata. Notiamo che la pratica di calma concentrata per riuscire soddisfacente e fruttuosa dovrà essere intrinsecamente ‘condizionata’ da a), b) e c).

e) Personalmente apprezzo molto, accanto alla pratica formale di raccoglimento sul respiro, una modalità di raccoglimento di tipo più informale che per molti si rivela strumento eccellente di lavoro interiore: la pratica della metta (benevolenza) in azione, ossia evocata il più possibile nel fitto della vita quotidiana. Essa pure, col tempo, produce una sensazione di fondo, assai netta, di sostegno. Chi ha dimestichezza con questa pratica sa che anch’essa procede per fasi: fasi difficili, fasi agevoli. Un giorno può sembrarci che la metta ormai abbia preso fissa dimora in noi, il giorno dopo abbiamo quasi l’impressione di non averla mai praticata, tanto si è fatta ardua.

Questi cinque punti configurano una versione di ciò che abbiamo chiamato la base della pratica. Superfluo dire che possono esserci versioni differenti da questa, a seconda del lignaggio di pratica che uno segue e dalle inclinazioni spirituali dell’individuo. L’importante è che l’insieme degli ingredienti riescano a compaginarsi in una base, in un fondamento nutriente capace di sostenerci ‘maternamente’.

Ora questo fondamento sembra imprescindibile per i più a causa di una ragione molto precisa, che è questa: praticare davvero la consapevolezza e dunque esercitarla a tutto campo significa avventurarsi in un territorio in larga parte ignoto, anche se ci appare familiare.

Per esempio, sappiamo bene che talora ci coglie quel tale astio sordo. Dunque, roba risaputa. Tuttavia, in realtà non ci siamo mai ‘seduti’ dentro l’astio in silenzio ad ascoltarne la pulsazione e, probabilmente, non abbiamo alcuna intenzione di farlo, malgrado i nostri interessi spirituali. Ecco la terra incognita e la paura di attraversarla.

La vasta capacità intrinseca al nostro cuore – annota Ajahn Munindo – ha già in se stessa tutto quello che cerchiamo. Il problema è che noi preferiamo non affrontare la paura di entrare in una realtà più ampia 1.

In breve il punto sembra esser questo: per potere aprirsi di più (molto di più) alla realtà, per imparare a entrare in intimità col movimento della mente e della vita, abbiamo bisogno di lasciare andare una contrazione fondamentale, quella contrazione chiamata anche io-mio. L’incessante pensare per pensare, il nostro profondo attaccamento al discorrere mentale è, in effetto, un continuo fasciarci, coprirci, chiuderci. Infatti, così facendo, noi dipingiamo e definiamo la realtà in termini noti e abituali, poco conta se negativamente o positivamente.

L’enormità, il fatto sconcertante che la pratica pian piano ci rivela è che noi, per lo più, siamo ben poco in contatto con le cose così come sono. E ciò perché la contrazione fondamentale dell’io-mio ci preclude la realtà. Questa sorta di paralisi ci porta a una radicale incapacità di ascolto ovvero di consapevolezza.Sicché piuttosto che alimentarci dell’ascolto diretto (di cose, situazioni, persone) noi ci nutriamo, piuttosto, di giudizi, concetti, reazioni espresse prima e durante l’ascolto, ascolto che finisce così per aver luogo ben di rado. E il nostro ‘spazio del cuore’, potenzialmente assai vasto, non può che restringersi e contrarsi.

Il pensare incessante e ripetitivo interferisce con la capacità di connetterci con il nostro mondo. Isolati dentro le nostre teste, aspiriamo acutamente a quella connessione dalla quale il nostro pensare ci tiene lontani… Può essere una scoperta non da poco quella di accorgersi che tanta parte del nostro pensare è noiosa, ripetitiva e irrilevante e che, oltre a ciò, ci isola e ci taglia fuori proprio da quel sentimento di connessione che tanto apprezziamo 2

. Del nostro continuo raccontarci e giudicare la realtà senza ascoltarla fa parte organicamente la compulsione a controllarla il più possibile di modo che essa ci appaia così come ce la raccontiamo, come vogliamo che sia e come siamo saldamente abituati a raccontarcela e a volerla. E dunque, per esempio, l’indugiare frequente in pensieri circa il futuro è spesso un tentativo di esorcizzare l’imprevisto, di cercare ‘sicurezze’ di vario genere, di disporre e ridisporre le cose per far fronte all’indistinto, all’ignoto.

E così pure altro esempio abbastanza evidente di controllo quando rimuginiamo ciò che vorremmo dire a quel tale o ciò che gli avremmo voluto dire, di nuovo siamo preda della coazione a controllare, di nuovo rifiutiamo l’ascolto di ciò che è: in questo caso rabbia, paura e simili. Da notare che queste strategie di controllo e diversione sono diventate talmente abituali da apparirci come la più innocua ‘normalità’. Per questa ragione, se vogliamo lavorare su tutto ciò, abbiamo bisogno di una pratica che diventi per lo meno altrettanto normale.

Ma perché la pratica possa cominciare a intaccare questo groviglio è cruciale capire ciò che efficacemente sottolineava poc’anzi Epstein, vale a dire che l’incessante controllare e proliferare mentalmente ha come risultato più cospicuo quello di isolarci, alienarci, separarci e dunque di addolorarci. Attaccati a come vorremmo che la realtà sia, non entriamo in contatto con la realtà e soffriamo.

Solo se cominciamo a comprendere questa contraddizione potrà sorriderci la prospettiva di apprendere l’arte del lasciare andare la compulsione al controllo e alla proliferazione mentale.

Ciò comporterà di mettere in discussione tutto il peso e la densità che siamo abituati a dare alle nostre conclusioni, opinioni, giudizi; tutto il potere che conferiamo alle nostre percezioni, pur sapendo che sono spesso sbagliate; tutta l’autorità che impartiamo alle nostre emozioni.

Tuttavia tale messa in questione può aver luogo soltanto se cambia musica e solo se ci ritroviamo sempre più a dare il potere alla consapevolezza, invece di identificarci meccanicamente con l’avversione, l’attaccamento, la paura, con l’abitudine a controllare e a evocare il noto. Ma perché la consapevolezza possa ‘decollare’ sarà necessaria – almeno per la grande maggioranza dei cercatori interiori – la ‘madre saggia’, ossia quella base spirituale affidabile e calda che dicevamo.

Così sorretta, la consapevolezza potrà osare esplorare, a cominciare dai ‘nodi del cuore’. Infatti, come già si diceva, noi non vogliamo contemplare in silenzio la nostra rabbia, anche se il progetto ci affascina e lo raccomandiamo in giro. Piuttosto, noi vogliamo parlare nella rabbia, vogliamo pensare e immaginare nella rabbia, anche se tutto ciò che diciamo è prevedibile. Anzi, è importante proprio perché è prevedibile, ripetitivo, noto, abituale. In questa maniera noi non incontriamo mai davvero la rabbia. Al contrario, ne rimaniamo separati da quella barriera proliferante alla quale siamo così attaccati.

Riepilogando: se, grazie a quella ‘madre saggia’ che è la base della pratica, nasce in noi il coraggio della consapevolezza, ci accorgiamo anzitutto della costante contrazione di vita nella quale ci muoviamo e, inoltre, tocchiamo con mano che le numerose strategie di controllo e di diversione alle quali si ricorre sono fallimentari e hanno come unico effetto quello di aumentare la contrazione.

Già questa prima intuizione (in genere gradualissima) comincia a indebolire la contrazione fondamentale. È un po’ come trasalire al rendersi conto di un grosso errore che siamo venuti facendo per molto tempo. Quindi la consapevolezza, vedendo la fecondità del lasciare andare, è mossa da ulteriore fiducia e coraggio e prende a muoversi oltre quella resistenza che ci separa e ci divide. Questa è la vera capacità di consapevolezza intima, ossia la capacità di riposare in silenzio attento e, in qualche modo, affettuoso, dentro la paura o qualsiasi altro moto mentale. Ecco allora che la separazione-alienazione cronica da ciò che accade, la barriera giudicante-proliferante-controllante prende a dare segni di scioglimento. E questo evento – che non soltanto è lento e graduale ma anche travagliato e punteggiato da ricadute – è evidentemente carico di conseguenze.

Alcune che mi sembrano di grande rilievo sono le seguenti. Anzitutto intimità e comunione sia con lo spiacevole sia con il piacevole significa cominciare veramente a capire e gustare la vita nel presente in spirito di connessione. Ancora molto incisivo Epstein:

Allorché siamo afflitti da sensi di indegnità è facile sentirsi manchevoli e vedere nell’amore di un’altra persona l’unica possibilità di soluzione per il nostro disagio. La meditazione tende a operare in direzione contraria rispetto a questa conclusione di manchevolezza, lavorando a restaurare la capacità di connessione dall’interno… Nel far ciò la meditazione mette in questione ciò che nella nostra cultura si dà per scontato e cioè che la connessione può avvenire solo in virtù di un altro. Nella visione buddhista la connessione è già presente. Noi non siamo separati e distinti come pensiamo di essere. La connessione è il nostro stato naturale: dobbiamo solo imparare a permettercelo 3

. Intimità significa, inoltre, lasciare andare, abbandonare la resistenza cronica (di cui fa parte la mente cronicamente giudicante) e approdare a un maggior agio.

Infine intimità significa comprensione più profonda.

E dunque se comprendiamo più profondamente ciò che non è salutare, ciò che causa sofferenza – per esempio abitudini, atteggiamenti, attività – tutto ciò è destinato ad attenuarsi e talora, suscitando grande felicità, a finire.

D’altra parte, se comprendiamo sempre più nettamente ciò che è salutare, ovvero tutto quanto contribuisce al bene, questa comprensione ci indurrà a una memorabile conversione del cuore.

Un’ultima annotazione. Questo scritto ha suggerito in vario modo come la consapevolezza vada suonata sempre in accordo armonico con il silenzio interiore, l’intimità, l’accettazione, l’abbandono, il lasciare andare. Vorremmo sottolineare questa cosa ancora una volta, data la sua grande rilevanza per un corretto intendimento della pratica.

In proposito, ricordiamo il lapidario “L’osservatore è l’osservato” di Krishnamurti 4. Che vuol dire? Se per esempio osserviamo la paura, se dunque l’osservato è la paura e se noi la osserviamo col desiderio che se ne vada, con fastidio e giudizio nei nostri confronti, allora quella mente che osserva la paura si rivela della medesima stoffa della paura, ha lo stesso sentire, la stessa logica, è la paura. Dunque l’osservatore è l’osservato, l’osservatore della paura è il censore impaurito e irritato. Siamo evidentemente agli antipodi della consapevolezza non giudicante.

Ma quando invece la consapevolezza è permeata di silenzio e di abbandono, è come se entrasse in scena un livello del tutto differente, nel quale c’è una liberante percezione che il dolore è sia nell’osservatore-giudice, sia nella paura osservata-censurata. E allorché questa percezione non è più un fatto episodico, bensì una naturale occorrenza, questo è segno che la consapevolezza, ben sostenuta dalla ‘madre saggia’, sta fiorendo dentro di noi.

NOTE

1. Ajahn Munindo, The Gift of Well-being, River Publications, Harnham, Gran Bretagna, 1998, p. 68. Trad. nostra.

2. M. Epstein, Going to pieces without falling apart. A Buddhist perspective on wholeness, New York 1998, pp. 58-9. Trad. nostra.

3. Ivi, p. 75.

4. È un tema che attraversa tutta l‘opera di Krishnamurti. Abbondanti riferimenti nei voll. 15 e 16 dei Collected Works. In italiano si può vedere la recente antologia: Krishnamurti, Libertà totale, Ubaldini Editore, Roma 1998, pp. 247-8.

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